Tra Moka e la sua “amica selvatica” sussiste un legame assolutamente felice, indissolubile. Dai suoi componimenti traspaiono sempre una grande forza e una profonda dolcezza. Persino nelle poesie che trattano i temi più duri, come “Dentro il corpo c’è dolore” e “Violenza domestica”, non ricorre mai a tono accusatorio carico di furore, ma c’è sempre una dolente malinconia. Moka è una persona che trasforma i sentimenti più negativi in malinconia. Persino le prove più terribili vengono affrontate con animo saldo, per quanto addolorato, come in “Angolo di Paradiso” e “Capire la vita (è anche questo)”, perché vivere significa anche accettare il dolore, ossia quella parte della vita che vorremmo tutti risparmiarci, ed è proprio la sua serena accettazione che ci permette di avvolgere un ricordo nella tenerezza e non nel cupo rimpianto. Moka ce ne dà un bellissimo esempio nel suo “Un tempo assente”: la malinconia cristallizza anche gli eventi più lontani, relegati ormai nel passato, in un presente sfumato da lievi foschie che rende quel “mai più” in un “c’è ancora”. I ricordi non sono mai perduti, sono lì, ancora lì, sono un’altra realtà magica che si può ritrovare nella lieve foschia mattutina che aleggia sul lago, quel lago di cui Moka è tanto innamorata al punto da far innamorare anche noi. In “Un tempo assente” non riesco a trovare la poesia che mi piaccia più di tutte le altre, perché è un continuo innamorarsi. Moka è la malinconia che incanta e ti culla dolcemente, senza rimpianti.
Recensione di Elisabetta Ferri