“Tigre!Tigre! Divampante fulgore/ nelle foreste della notte,/Quale fu l’immortale mano o l’occhio/ ch’ebbe la forza di formare la tua/ agghiacciante simmetria?(…)” scriveva William Blake per simboleggiare la sofferenza che deriva dall’esperienza umana.
Moka, autrice di questo delicato libro di poesie, promuove il nobile felino a simbolo della poesia stessa. La poetessa si immedesima con la tigre fino a tal punto da utilizzare lo sguardo penetrante del “felino – poesia” per osservare la “realtà- selva” che la circonda. E in questa selva ascoltiamo suoni che provengono dal tubo catodico (“Dentro il corpo c’è un dolore”) e rumori che non vorremmo ascoltare (Violenza domestica). Le stagioni sono imperfette (“Stagioni”) come imperfette sembrano sempre le parole al poeta.E poi c’è il lago, che mitiga tutto e tutto culla. Sulle acque del lago si riflettono gli occhi della Tigre che diventano malinconici (“La voce della notte d’estate”), mentre attorno papaveri “si baciano/ infatuati/ di passioni ribelli (…)” ( “Tra i Papaveri”) e “Gigli rossi” sbocciano indifferenti alle traversie umane. La Tigre ascolta “ Le chiacchiere della pioggia” e costruisce “Castelli in aria” sognando l’abbandono assoluto dei campi assolati. Il lago, chiave di lettura degli umori (“La chiave di lettura”), attraversa anche i sogni. E nei sogni tutto avvolge, anche la vita (“Storia di un sogno”). Moka con questa silloge dà prova di grande sensibilità poetica e regala parole che sanno graffiare a fondo l’animo del lettore.
Recensione di Diego Baldassarre